XII CONGRESSO NAZIONALE DI IMMUNOPATOLOGIA CUTANEA MILANO, 29-30 NOVEMBRE 2019

XII CONGRESSO NAZIONALE DI IMMUNOPATOLOGIA CUTANEA MILANO, 29-30 NOVEMBRE 2019
Milano, 29-30 Novembre 2019
10/01/2020
  • Recensione del XII Congresso di Immunopatologia cutanea, Milano, 29-30 Novembre 2019

di Silvia Battisti, Valentina Battisti, Carola Pulvirenti

Ha avuto luogo il XII Congresso Nazionale di Immunopatologia cutanea tenutosi all’Università degli studi di Milano il 29 e 30 novembre 2019 sotto la responsabilità scientifica del Prof. Angelo Valerio Marzano. L’evento ha raccolto esperti che si occupano di dermatosi immunomediate a vari livelli, nello specifico la prima giornata è stata dedicata alle malattie bollose autoimmuni, mentre la seconda alla Dermatosi Eosinofile. In questa sede ci concentreremo sulla sessione della prima giornata dedicata alle malattie bollose e il rapporto tra medici e pazienti, perché dopo interventi illustri sulla stagionalità delle malattie bollose, sulle novità diagnostiche, sulla terapia UVB, sulle nuove terapie farmacologiche, sui modelli di infezione cutanea, sul pemfigoide bolloso indotto da farmaci e sul pemfigoide delle mucose, nel pomeriggio c’è stato uno spazio interessante relativo al rapporto con il paziente, all’importanza degli elementi psicologici e sul progetto ANPPI Networkcare. Questi aspetti il più delle volte trascurati nella visione generale di alcune malattie, hanno rappresentato un momento di riflessione per i presenti spesso volti a considerare solo l’elemento biologico. A tal proposito una presenza gradita e utile è stata quella dei fondatori dell’associazione Anppi e dei pazienti, oltre alla nutrita presenza dei medici che lavorano a stretto contatto con questi pazienti. L’Anppi  (Associazione Nazionale Pemfigo/Pemfingoide Italy) si occupa di migliorare la qualità di vita delle persone con malattie bollose autoimmuni. In tal senso ha aperto la sezione il Presidente Anppi Giuseppe Formato, giovane paziente con Pemfigo Volgare, con una relazione introduttiva sugli scopi dell’associazione e l’importanza della collaborazione tra l’associazione e gli operatori sanitari. Inoltre le testimonianze di pazienti sono stati momenti centrali in quanto hanno spiegato il proprio punto di vista nel vissuto di malattia. Interviene, successivamente, Biagio Didona dell’ambulatorio delle malattie rare Idi-Irccs, Roma, con la sua relazione dal titolo “Il rapporto medico-paziente: una formula vincente” esprimendo la centralità dell’alleanza terapeutica e della comunicazione efficace tra le due persone e a seguire Damiano Abeni, Direttore dell’Unità di epidemiologia , Registri , Trial Clinici e Statistica del Idi-Irccs ,esponendo la sua interessante relazione su “Le criticità della raccolta dati nelle Malattie Bollose Autoimmuni”, presentando il protocollo di ricerca sullo stato di salute psicologica nelle persone affette da malattie bollose autoimmuni e la valutazione preliminare di un intervento di sostegno di gruppo. Protocollo redatto da un’equipe multidisciplinare coordinata dalla Dott.ssa Silvia Battisti Psicologa e Psicoterapeuta Irppi/Adirppi. Gli obiettivi primari di tale protocollo sono quelli di: a) descrivere la qualità di vita di persone con malattie bollose autoimmuni, a seconda della gravità della malattia, della localizzazione delle lesioni e della loro estensione, e di variabili sociodemografiche, b) stimare la prevalenza del disagio psicologico di persone con malattie bollose autoimmuni, in relazione a variabili sociodemografiche e cliniche, c) Verificare se la partecipazione da parte di pazienti a gruppi di supporto psicosociale possa migliorare la loro qualità di vita. A collegare il tema della sessione, l’ intervento dal titolo “Il patient engagement nei processi di cura” tenuto da Carola Pulvirenti, dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive L. Spallanzani, Roma e vicepresidente Anppi. Il Patient Engagement è una metodica che prevede il contributo dei pazienti in tutte le fasi del processo di cura: nella stesura dei protocolli di ricerca, nell’organizzazione dei servizi sanitari, e in molti altri ambiti come i tavoli di lavoro istituzionali. Le esperienze internazionali ci portano a ritenere che i pazienti esperti e le Associazioni di Pazienti rappresentano una risorsa da integrare nel sistema sanitario. L'EMA (European Medicines Agency) garantisce il coinvolgimento dei pazienti nei propri organi di gestione e L’ AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha recentemente aperto un tavolo permanente per i pazienti La prospettiva del Patient Engagement (PE) è quella di una salute pubblica inclusiva, che fonda le sue radici sul dialogo fra i diversi stakeholder. Per la buona riuscita di un progetto d’impresa è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse, allo stesso modo per il successo del processo di cura è necessario il coinvolgimento di tutte le risorse ed il paziente è destinatario ma anche risorsa da coinvolgere e valorizzare. Per capire in che modo mettere in atto il PE, possiamo identificare quattro tipologie di pazienti: i Pazienti Esperti, i Rappresentanti dei pazienti, i Caregivers, i singoli pazienti. "I pazienti Esperti", sono l’ideale, oltre all'esperienza specifica della malattia, hanno le conoscenze tecniche in ricerca e sviluppo e / o affari regolatori attraverso la formazione. Andrebbero coinvolti ad esempio nei progetti di ricerca fin dalle prime fasi e nei comitati etici, nei processi di valutazione delle tecnologie sanitarie (HTA). L’accademia Europea dei Pazienti sull’Innovazione Terapeutica (EUPATI) ed il Centro PATIENT ADVOCACY LAB dell'Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell'Università cattolica del Sacro cuore, si stanno occupando di formare i pazienti per renderli Pazienti Esperti. Il paziente Esperto è un paziente preparato e consapevole che supporta il professionista sanitario con la sua esperienza diretta di malattia, veicola le necessità degli altri ed aiuta ad arginare il fenomeno della disinformazione in salute. I "rappresentanti delle organizzazioni di pazienti" e i "difensori dei pazienti" sono persone incaricate di esprimere le opinioni collettive di un gruppo di pazienti su una specifica malattia o gruppo di malattie ed hanno l'esperienza nel supportare una popolazione di pazienti. E’ importante coinvolgerli nell’organizzazione dell’assistenza, ad esempio attraverso le consulte dei pazienti e nella stesura dei PDTA. I caregivers hanno un’esperienza indiretta della malattia ed un’esperienza diretta delle conseguenze della malattia. I caregivers familiari giocano un ruolo cruciale nel processo di engagement, per questo dovrebbero essere coinvolti soprattutto nei tavoli di lavoro istituzionali. I singoli pazienti possono contribuire con la loro esperienza soggettiva della malattia e, dopo essere stati formati dallo specifico ospedale, possono venire coinvolti come volontari per l’accoglienza degli altri pazienti. Un paziente esperto ha una sua area di expertise e lavora in due modalità principali: offrire supporto ai pazienti per l’aderenza alle cure e garantire ai pazienti informazioni affidabili per poter affrontare la vita quotidiana con la loro malattia. IL Paziente Esperto può inoltre supportare l’attività di ricerca clinica, ad esempio nel reclutamento dei pazienti, nella stesura e spiegazione del consenso informato. I pazienti esperti possono anche essere coinvolti nella determinazione dei criteri di raccolta dati, nell’identificazione delle priorità all’interno di una certa linea di ricerca, della migliore valutazione dell’applicabilità di un servizio all’interno della vita quotidiana dei malati.  La sessione continua con Silvia e Valentina Battisti Psicologhe e Psicoterapeute Irppi/Adirppi che, in virtù dell’esperienza e delle conoscenze specifiche maturate in un anno di collaborazione con l’ANPPI, hanno presentato la relazione: “L’empowerment dei pazienti con Pemfigo e Pemfigoide”, ad integrazione degli aspetti biologici e psicologici, i primi di cui si è discusso molto, ma che non è possibile trattare senza un approccio di tipo integrato che tiene conto dell’unicità del paziente, del racconto della sua “storia”. Ogni uomo è spinto a formare un progetto di vita, un bisogno irrinunciabile di realizzare se sessi. Proiettarsi nel futuro, raggiungere mete e pianificare i propri obiettivi: studio, lavoro, relazione. Il passaggio da uno stato di salute a quello di malattia pone un ostacolo a tutto questo. Il senso di inattaccabilità viene messo a dura prova in situazioni difficili. L’ostacolo rappresenta una minaccia che funge da fattore traumatico che lascia il posto a sensazioni di sconforto e abbattimento. Tutto si ferma e la spensieratezza lascia lo spazio alla paura. Paura di soffrire, paura di essere abbandonato, vergogna, paura della morte. L’impatto emozionale come un fulmine a ciel sereno è vissuto come un’aggressione o un tradimento. Il senso di paura e di perdita (di quello che si era prima) può essere associato sul piano teorico e clinico alla elaborazione del lutto e alla perdita descritti negli studi di John Bowlby sull’attaccamento (1969,1973,1980). Sensazione di perdita e dipendenza affettiva ben conosciute: stordimento, disperazione, ricerca e struggimento, riorganizzazione. Per il clinico è importante capire quanto la persona comprende realmente la situazione che sta vivendo. Nei casi in cui sono presenti sofferenze profonde rivolgersi allo Psicoterapeuta o allo Psichiatra deve essere possibile per non peggiorare la situazione vissuta. Comprendere che il curante viene visto come figura risanatrice e vengono proiettate su di lui immagini ed esperienze di attaccamento. Il curante dovrà essere provvisto delle 4 abilità: accoglienza, ascolto, empatia, comunicazione, senza trascurare i bisogni di protezione e di accudimento presenti nella persona e quindi porsi con un “ Io sono qui, non si preoccupi, ora mi occuperò di lei” ha un’efficacia terapeutica ineguagliabile. A questo si collega, di contro, la possibilità riprendere in mano la gestione della propria malattia attraverso il concetto do empowerment.  In un interessante e recente articolo pubblicato su ScienceDirect (J.J.Domínguez et all. 2018)  si affronta il termine empowerment in ambito dermatologico, riferendosi a qualsiasi processo che faciliti i cambiamenti comportamentali e incoraggi la responsabilità e le scelte consapevoli. Il concetto è stato applicato principalmente per aiutare i pazienti con condizioni dermatologiche croniche a raggiungere obiettivi terapeutici nel modo migliore, facilitando il ruolo centrale e attivo del paziente nelle decisioni. Il termine empowerment deriva dal verbo inglese to empower che significa "dare (a qualcuno) l'autorità o il potere di fare qualcosa" o "rendere un individuo o un gruppo più forte o più potente". Non parliamo di potere su (power over), ma di potere con (power with). A livello psicologico, l’empowerment può essere inteso sia come prodotto che come processo, o meglio come un processo psicosociale. E’ una variabile continua e una stessa persona può essere empowered in un determinato momento della sua vita ed esserlo meno in un altro momento. Va oltre i costrutti con i quali normalmente viene paragonato e confuso, quali quelli di autostima, autoefficacia, locus of control, anche se il sentimento di autoefficacia è una parte fondamentale del sentirsi empowered. I soggetti disempowered e helpless si sentono psicologicamente impotenti e dipendenti da un locus of control esterno, presentano atteggiamenti di passività, pessimismo e rassegnazione. Attraversare un processo di empowerment significa, per contro, sia riacquistare un locus of control interno e un grado di autodeterminazione e indipendenza, cioè un sentimento di fiducia in se stessi e negli altri, sia acquisire un certo grado di autoefficacia. L’empowerment individuale riguarda soprattutto i concetti di controllo e di consapevolezza critica e avvia cambiamenti a tre livelli, cioè secondo tre stili interpretativi e costruttivi della realtà; 1) il processo di attribuzione, 2) di valutazione, 3) di prefigurazione del futuro. Il primo fa riferimento al modo in cui tentiamo di spiegare i nostri successi o insuccessi attribuendone le cause a fattori interni o esterni. Il processo di valutazione riguarda invece le nostre credenze rispetto agli standard con i quali valutiamo le nostre prestazioni che, se troppo alti o irrealistici, portano a circoli viziosi di insuccessi percepiti e conseguente frustrazione. Il processo di prefigurazione, infine, rappresenta il modo in cui immaginiamo, anticipiamo, visualizziamo il nostro futuro. In ambito sanitario, l’empowerment favorisce la prevenzione, la partecipazione ai programmi di screening, l’accesso alle cure quando servono e la loro buona gestione, come la preparazione a esami, interventi e procedure. Per dire che il lavoro di empowerment è riuscito, occorre che il paziente, oltre ad avere una certa sicurezza e padronanza, abbia una buona alfabetizzazione sanitaria e che possegga una serie di abilità essenziali per affrontare efficacemente i problemi e le decisioni della salute e delle cure. P. Schulz e K. Nakamoto, in un articolo del 2013 sul concetto di patient education, insistono sull'importanza di distinguere tra padronanza, mastery, e alfabetizzazione sanitaria, health literacy, sottolineando che occorrono entrambe. Ad esempio il rifiuto da parte dei genitori di vaccinare i bambini a seguito di notizie infondate sul rischio di autismo dovuto al vaccino è un esempio di alta padronanza e bassa alfabetizzazione, che peggiora la sanità esponendo i piccoli a rischi di infezioni. Al contrario studi sul supporto online ai pazienti affetti da fibromialgia hanno mostrato che, pur essendo ben preparati, questi tendono a sentirsi insicuri, col che il supporto online non funziona. Evidentemente occorrono al tempo stesso alti livelli di padronanza e di alfabetizzazione. Nella padronanza di solito si distinguono una componente psicologica e una sociale, seppure tra loro in interazione. Una persona può impegnarsi per affrontare al meglio i problemi della propria salute e sentirsi all'altezza, ma  trovare intorno a sè un ambiente che ne limita l'autonomia. Ad esempio, gli operatori sanitari con cui ha a che fare possono scoraggiare i suoi sforzi di partecipare alle cure o pretendere, più o meno esplicitamente, che si comporti da utente passivo. La padronanza psicologica è legata soprattutto alle abilità, grazie alle quali  riusciamo a raccogliere le informazioni necessarie, a cimentarci con l'incertezza, a trovare l'approccio giusto per addentrarci nel terreno della scienza, a essere sufficientemente razionali ed equilibrati e a rapportarci agli altri in modo adeguato. Fondamentale è la capacità di gestire la paura. Se il desiderio di toglierci la paura prevale su quello di analizzare e risolvere il problema di salute che abbiamo di fronte, tendiamo ad arrenderci, a delegare, a passare la mano e la padronanza psicologica viene meno. E’ il caso di quando avvertiamo dei sintomi o vengono messe al corrente di risultati patologici di esami clinici o di una diagnosi di malattia o del rischio di una malattia (ad esempio, di cancro per il fumo), le persone si comportano in modo diverso. Nonostante le differenze, ci sono reazioni cognitive ed emotive abbastanza ricorrenti. Alle reazioni alla malattia si applica bene una teoria elaborata originariamente da H.Leventhal negli anni Settanta: quando percepisce il pericolo della malattia, l’individuo ha due reazioni: da un lato, attraverso la risposta cognitiva, cerca di inquadrare il problema razionalmente e anche se non è medico, con le conoscenze che ha e che reperisce, cerca di dare risposta a tipiche domande cliniche, badando però soprattutto alle ricadute esistenziali dell’eventuale malattia. Contemporaneamente avanza la risposta emotiva: prende corpo la paura, vengono in mente pensieri preoccupanti (ad esempio: se sono cardiopatico, dovrò cambiare vita) e si cerca di controllarli in maniera ora più illusoria (il dolore è passato: non sarà niente), ora più realistica (sentiamo prima i medici). L’individuo può alla fine arrivare a seguire una strategia di risoluzione, per cui affronta il problema e fa tutto ciò che razionalmente va fatto data la situazione, o di evitamento, tesa più che altro a fuggire dal problema. Ovviamente l'empowerment mira a fare in modo che le persone vadano verso la risoluzione.  Oggi sappiamo che anche con una paura alta può prevalere la risposta cognitiva e si può avere un comportamento di risoluzione, anziché di evitamento. Addirittura l'operatore sanitario che sa presentare adeguatamente la gravità dei problemi può aiutare il paziente ad andare verso la risoluzione più di quello che la sminuisce. Capire fa bene alla salute, letteralmente. Comprendere quello che ci dice il medico o un altro operatore sanitario, leggere senza difficoltà di interpretazione la prescrizione di un farmaco o un depliant informativo significa evitare problemi facilmente intuibili e con i quali, prima o poi, siamo tutti costretti a confrontarci. Sappiamo, però, che spesso il medico utilizza termini tecnici e scientifici che ci lasciano pieni di dubbi, anche perché non osiamo chiedere spiegazioni; persino indicazioni apparentemente semplici possono creare ansia ed  è necessario, quindi, rendere la comunicazione più chiara, semplice e comprensibile a tutti, verificando che lo sia realmente.


  • Nuove terapie per le malattie bollose: clinical trials in corso

Claudio Feliciani

Clinica Dermatologica Università di Parma

L’era dei biologici è arrivata anche per le malattie bollose autoimmuni, grazie alla ricerca nella patogenesi di altre malattie autoimmuni e non il Pemfigo ed il Pemfigoide possono essere trattati con farmaci più innovativi, per la maggior parte ancora in sperimentazione. Gli anti CD20 hanno aperto la strada per abbandonare o ridurre al minimo l utilizzo di altri immunosoppressori o adiuvanti. Il Rituximab è oramai una prima scelta in determinati pazienti con il pemfigo e selezionando bene i pazienti è un farmaco che rivoluziona la storia clinica della malattia. In itinere ci sono però altri farmaci promettenti per la terapia del Pemfigo.  Alcuni che seguono la strada anti B-cells altri sui meccanismi attivatori delle cellule B altri ancora sui recettori BTK, in attesa del perfezionamento di una terapia chimerica DSG-CAART. Nel pemfigoide oltre all utilizzo di anti CD20 si stanno sperimentando target sulla attivazione infiammatoria tipo eotaxin-1 o anti IL-1beta 


  • Attivazione del processo infiammatorio in modelli di infezione cutanea

Francesca Granucci
 
Le infezioni microbiche sono percepite dalle cellule dell’immunità innata che esprimono i recettori del tipo PRR (pattern recognition receptors). I PRR legano strutture molecolari associate ai microrganismi collettivamente chiamati PAMP (pathogen associated molecular patterns). L'immunità innata è la forma più antica di risposta ai patogeni e si basa su percorsi di segnalazione conservati durante l’evoluzione, come ad esempio quelli che coinvolgono la via NF-kB. Tuttavia, evidenze recenti suggeriscono che anche fattori di trascrizione comparsi tardivamente deurante l’evoluzione possano contribuire alle risposte infiammatorie innate. In particolare. noi abbiamo osservato che in seguito ad attivazione con stimoli infiammatori di natura diversa le cellule dendritiche, cellule dell’immunità innata capaci di controllare l’attivazione sia delle risposte immunitarie innate che adattative, attivano la via di segnalazione che porta all’attivazione della famiglia di fattori di trascrizione NFAT e alla loro traslocazione nucleare. I fattori NFAT compiano tardivamente durante l’evoluzione e sono presenti solo nei vertebrati. 
Abbiamo inoltre osservato che l’attivazione di questa famiglia di fattori di trascrizione è importante per controllare la produzione di Prostaglandina E2 e la formazione di risposte infiammatorie efficaci per l’eliminazione dei patogeni.


  • PEMFIGOIDE DELLE MUCOSE 

Giovanni Genovese 

Unità Operativa di Dermatologia, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano 

Il pemfigoide delle mucose (MMP) è una rara patologia bollosa autoimmune clinicamente contraddistinta dalla presenza di lesioni bollose subepiteliali che coinvolgono in modo predominante le mucose. Tale entità nosologica comprende diversi fenotipi clinicamente eterogenei causati da autoanticorpi circolanti diretti contro varie componenti delle strutture di adesione della membrana basale epiteliale. Nell’ultima decade, numerose evidenze sono emerse sul fatto che differenti subset immunopatologici di pazienti identificati sulla base della specificità del legame degli anticorpi sierici ad autoantigeni target possano associarsi a diversi fenotipi di malattia ed outcome clinici e ad una diversa suscettibilità allo sviluppo di neoplasie. In particolare, studi retrospettivi hanno messo in luce un rischio relativo di neoplasia incrementato in pazienti con MMP positivo per anticorpi anti-laminina 332 e ridotto in pazienti con positività per anticorpi anti-subunità α6 e β4 dell’integrina α6β4. Tuttavia, recenti studi retrospettivi sembrerebbero non confermare l’associazione tra anticorpi anti-laminina 332 e cancro. Le notevoli ricadute sul piano della gestione clinica del paziente derivanti dalla validazione dei dati presenti in letteratura ci hanno, pertanto, incoraggiato a dare avvio ad uno studio prospettico che sarà rivolto ad indagare i risvolti clinici e prognostici dei diversi profili autoanticorpali riscontrati in un’ampia coorte di pazienti affetti da MMP. 


  • Studio prospettico osservazionale per valutare l’efficacia e la sicurezza del biosimilare del Rituximab in pazienti italiani affetti da pemfigo.

SALEMME A1, SINAGRA JL1, MORO F2, FANIA L2, PROVINI A2, MASINI C3, PALLOTTA S3, GENOVESE G4, ZUSSINO M4, MURATORI S4, QUINTARELLI L5, ANTIGA E5, MAGLIE R5, VASSALLO C6, CAPRONI M5, MARZANO AV4, BERTI E4, DIDONA B2, MAZZANTI C2, DI ZENZO G1

1Laboratorio Biologia Molecolare e Cellulare, Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI)-IRCCS, Roma, Italia; 2I Divisione Dermatologia, Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI)-IRCCS, Roma, Italia; 3V Divisione Dermatologia, Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI)-IRCCS, Roma, Italia; 4Unità di Dermatologia, Fondazione IRCCS Ca' Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milano, Italia; 5Dipartimento di Scienze, Sezione di Dermatologia, Università di Firenze, Firenze, Italia; 6Unità di Dermatologia, Università di Pavia, Fondazione IRCCS Policlinico S. Matteo, Pavia, Italia

Il pemfigo è una malattia bollosa autoimmune cronica che colpisce sia la pelle che le mucose, causata da autoanticorpi circolanti diretti contro le desmogleine (Dsg) 1 e 3, componenti dei desmosomi. Recentemente è stato dimostrato che il Rituximab, anticorpo monoclonale diretto verso il CD20 presente sui linfociti B, è un trattamento efficace e con un buon profilo di sicurezza per la cura del pemfigo. Il brevetto del Rituximab è scaduto e ciò ha permesso lo sviluppo di farmaci biosimilari. Tra quest’ultimi al momento in Italia il più usato per il trattamento del pemfigo è il CT-P10, approvato dall’EMA e dall’AIFA sulla base di studi condotti su pazienti affetti da malattie reumatiche ed oncologiche. Attualmente nessun dato è disponibile sull’uso del CT-P10 nel pemfigo. 
In questo studio che ha visto la partecipazione di 4 centri ospedalieri italiani specializzati in dermatologia, sono riportati i dati preliminari ottenuti da pazienti affetti da pemfigo trattati con il biosimilare del Rituximab, di cui sono stati valutati in corso di follow up la severità di malattia, i livelli degli autoanticorpi anti-Dsg 1 e 3, l’esito clinico e le reazioni avverse. 
Sono stati arruolati 24 pazienti di cui 18 affetti da pemfigo volgare, 1 vegetante e 5 foliaceo. L’età media era di 52,5 anni (range 35-73) ed il tempo medio di follow-up di 5,3 mesi (range 1-12). E’ stato osservata un’importate riduzione della severità di malattia che correlava con la diminuzione del titolo anticorpale anti-Dsg1 e 3. Il tempo medio per ottenere il controllo dell’attività di malattia è stato di 6,8 settimane (range 1-32). Dopo 6 mesi dall’ultima infusione del biosimilare, solo 1 su 16 pazienti trattati (6%) ha recidivato e 12 su 16 pazienti (75%) hanno ottenuto remissione di malattia. Non sono state osservate né gravi reazioni avverse né infezioni. Due su 24 pazienti (8%) sono usciti dallo studio per reazioni correlate all’infusione del farmaco. 
Sebbene possano essere considerati solo conclusioni preliminari, questi primi risultati suggeriscono che la somministrazione del biosimilare del Rituximab in pazienti affetti da pemfigo risponde ai requisiti di efficacia e sicurezza.


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